venerdì 4 settembre 2009

Il tempo che ci resta

Procediamo con la pubblicazione dei racconti inviati su Talkink. Il seguente è un racconto di Pietro Sansò. Una buona lettura a tutti voi.

IL TEMPO CHE CI RESTA

Era primo pomeriggio quando Giovanni si precipitò nella mia stanza con furia.
- Sono tornati! – mi disse.
Non feci commenti.
- Cosa hai fatto nell’ultima ora? – gli chiesi, mentre cercavo i pantaloni.
- Sono stato giù in cucina a leggere quell’inutile rivista scientifica. Le “spugne psichiche” di Hartmann mi sembrano delle stronzate… E tu? Che cosa hai fatto, di preciso?
Guardai Giovanni rassegnato. Il suo aspetto era spiritato. I voluminosi capelli neri e ricci sembravano ancora più gonfi del solito. La pelle abbronzata nascondeva a malapena un paio di marcate occhiaie. Era più alto di me di circa dieci centimetri, ma, data l’età sarebbe cresciuto ancora.
- Di preciso, dici? Ho contato le pecore per riuscire a dormire, poi è arrivato uno che assomiglia a mio nipote a farmi le domande a trabocchetto!
- Non mi prendere in giro, zio. Sto solo facendo la verifica
- La verifica…e già! Certe volte penso che sarebbe più facile mandare a quel paese il tempo che ci resta
- Non ce ne resta molto, a giudicare come vanno le cose. – I pantaloni mi sembrarono più stretti. Avevo la pancia gonfia e piena d’aria. Non è un bel particolare, ma la mia colite si stava facendo sentire - Va bene. Credo di essere pronto. Che abbiamo deciso?
- Sei tu il capo – disse Giovanni.
Quel giorno avevamo meno paura del solito. Io e mio nipote eravamo gli unici, in paese, ad aver conservato tutto intero il nostro tempo.
I problemi erano cominciati due anni prima a casa di Riccardo.
Riccardo era lo scemo del paese. Passava le sue giornate ad ascoltare senza sosta lo stesso brano dei Camaleonti, un vecchio complesso musicale italiano. Per lui, dimenticare le cose, era normale. Meno normale fu quello che accadde alla vecchia madre ed al fratello maggiore.
Di botto, cominciarono a soffrire di strane amnesie. Non avevano coscienza di periodi lunghi ore o addirittura giorni. Nel corso dei mesi che seguirono, la madre si allontanò a più riprese da casa ed anche il fratello si assentò più volte, senza saper dire dove fossero stati. Fino a che non svanirono definitivamente nel nulla e Riccardo fu ricoverato dai servizi sociali in una casa di riposo.
Poi fu la volta dei Mele. Questa volta, la prima a dileguarsi per ben ventiquattro ore, fu la figlia piccola. Al suo ritorno non seppe dare alcuna spiegazione, né qualcuno poté confermare di averla vista da qualche parte. Seguirono, a distanza di poche ore, brevi assenze del padre e della madre. La sorella maggiore si salvò perché viveva al nord per lavoro.
L’allarme venne lanciato dopo l’inspiegabile scomparsa di tutti i componenti della famiglia in una domenica di ottobre, all’ora di pranzo.
Come in un film di fantascienza, la vicina di casa aveva trovato la porta spalancata, il televisore acceso, le orecchiette ancora calde nel piatto e le posate, unte di sugo di carne, sparse sulla tovaglia.
Tutti i paesani avevano una teoria sul singolare episodio. Chi ipotizzava un rapimento extraterrestre, chi un fenomeno di autocombustione, chi un sequestro dei servizi segreti o, più realisticamente, un caso di “lupara bianca”.
Gran parte della popolazione di Funicello cominciò allora a sparire e ricomparire a fasi alterne. All’epoca vivevo ancora con mia moglie, divenuta ben presto vittima di quelle che tra noi chiamavamo scherzosamente “assenze ingiustificate”.
Ogni volta che rientrava (poteva accadere in qualunque momento) per lei era come se mi avesse lasciato un attimo prima.
Quando se ne andò per sempre non ero in casa. Poi fu terribile aspettare.
Mesi e mesi senza vederla riapparire. Sussultando ad ogni passo per strada, sperando di vederla materializzarsi, cercando senza sosta un modo per farla tornare.
- La trappola è pronta? – chiesi.
Giovanni mi sventolò sotto il naso il suo diario.
Eravamo gli ultimi paesani a decidere del proprio tempo mentre fuori dalla porta della nostra casa, la gente scompariva per periodi sempre più lunghi. Questo ci aveva messo in una posizione di vantaggio e, dopo decine di insuccessi, avevamo finalmente scoperto la causa di tutto.
Giovanni aveva posizionato il televisore spento di fronte a due leggii, uno a testa. Ci preparammo, un diario per ciascuno con le pagine aperte.
Il voluminoso quaderno di Giovanni contava cinquecento pagine in cui era descritto minuziosamente il tempo passato dalla sparizione dei suoi genitori a quel momento. Ogni dettaglio, ogni circostanza e situazione possibile che i genitori scomparsi avrebbero potuto generare, era stata messa nero su bianco. Un esperimento che anche io avevo condotto per mia moglie. Nel mio diario lei era vissuta malgrado l’assenza fisica.
Ci scambiammo un cenno d’intesa. Sapevamo che i succhiatempo erano tornati dalla presenza delle piccole gocce di liquido scuro ai piedi dello schermo piatto della tv.
- Leggi sempre. Non lasciare mai gli occhi dal diario! – ordinai – qualunque cosa succeda!
Pigiai finalmente il tasto del telecomando e la televisione si accese.
Cominciammo a leggere, senza interruzioni. I nostri cari prendevano vita, minuto dopo minuto.
Dietro lo schermo si formarono delle bolle nere sporgenti. Le luci si abbassarono, la porta d’ingresso si spalancò e dal monitor scivolarono fuori due grossi esseri scuri, simili a ratti, con il pelo bagnato di liquame e gli occhi umani.
Le creature gorgogliavano di felicità trattenuta. Fino a quando non ci sentirono leggere.
Uno dei ratti aprì la bocca ed emise un suono stridulo. L’altro, con gli occhi stravolti, provò a rientrare nella tv.
La spensi prima che ce la facesse. Non avevo bisogno di guardare il diario, lo conoscevo a memoria. L’importante era non fissarli negli occhi.
Azionai la leva con il piede e la gabbia calò dall’alto con tutta la sua pesantezza.
I succhiatempo erano in trappola, terrorizzati e convulsi, esposti al nostro racconto.
La lettura andò avanti sino a notte fonda, con i succhiatempo che si restringevano e si rimpicciolivano, fino a sparire completamente.
Come se si fosse rotto un sortilegio, la nostra casa si riempì di nuovo di persone care che ritrovavano il proprio tempo ed i propri ricordi.
Nei giorni seguenti al nostro successo molti succhiatempo vennero snidati ed uccisi brutalmente; i pochi che riuscirono a sopravvivere fuggirono lontano. Nessun altro scomparso, però, venne più restituito a Funicello.
Per impedire il ritorno delle creature tutti i televisori del paese furono distrutti per sempre. Fu in quel preciso momento, che ognuno di noi, chissà poi perché, seppe di avere di nuovo il tempo che si meritava.

1 commento:

Paolo Merenda ha detto...

Questo racconto mi è sempre piaciuto molto, peccato che non abbia trovato spazio sulla rivista :-(
Quando ti va, passi dal mio blog e lasci un commentino? Oltre ad aver avuto dei problemi per quanto riguarda i commenti, è abbastanza nuovo ed aiuterebbe l'indicizzazione ^^